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Ma… Ma…

Ma… Ma…

si, mi dispiace anche solo scriverne, ma è quello che io penso per una rinascita e un  possibile rilancio del partito democratico. Superando quella che da tempo è diventata una invadente presenza:
quella di Ma….ssimo Dalema e quella di Ma….tteo Renzi.

Con il massimo rispetto per quanto di positivo hanno fatto sia per il loro partito che per l’Italia”. Anche se non hanno potuto (ma forse almeno in parte non hanno saputo), concludere gran parte dei loro ambiziosi programmi.

Anche per questo dovrebbero farsi da parte, lasciando ad altri controllo e direzione della base del loro partito.

Non propongo niente di straordinario. Anche perché sono convinto che gran parte dei cittadini italiani siano ancora disponibili alla presenza ed a dare il loro sostegno ad un “partito democratico”. Che sia davvero al servizio di tutti.  Ma con manifesta e  particolare attenzione agli interessi della classe lavoratrice.

Per questo penso al pronto recupero e alla disponibilità di forti personalità che sono  state protagoniste della storia recente e anche attuale del partito democratico: a Veltroni e Zingaretti ed a Gentiloni e Martina.

Penso che loro dovrebbero e potrebbero unirsi per un nuovo impegno di rinascita del partito del lavoro e dei lavoratori italiani.

Questo pensa un vecchio (94 anni) che ha speso la sua vita al servizio dei lavoratori, essendo stato uno dei fondatori e dirigente nazionale delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, le ACLI e della Fondazione di Servizio sociale l’EISS.

GiRi

 

STORIE DI VITA

STORIE DI VITA

Al compimento del mio 88° anno affido al blog alcuni ricordi del mio impegno nella vita sociale, durato ininterrottamente per oltre cinquant’anni: prima nelle associazioni cristiane dei lavoratori – Acli – e poi nella fondazione Ente italiano di servizio sociale, Eiss. Dove non si è ancora concluso. Tra chi scrive, Giuseppe Rizzo nato a Catania il nove febbraio del 1924, e le associazioni cristiane dei lavoratori italiani -le Acli- esiste un legame profondo, un rapporto incancellabile anche se gli eventi, a più riprese, hanno provato a farlo: ma di questo dirò in seguito. Un rapporto fatto di sentimenti e di scelte razionali e definitive che, sin dall’anno 1944 quando avevo 20 anni, mi legarono testa e cuore ragioni e sentimenti, al movimento dei lavoratori cristiani italiano. Un legame fatto forte dalla profonda condivisione di quella triplice fedeltà: alla classe lavoratrice, alla democrazia e alla dottrina sociale cristiana, evocata nel 1955 dal Presidente centrale delle Acli Dino Penazzato. Del quale sono stato dal 1954 e per molti anni stretto collaboratore nella veste di componente la presidenza centrale e di vice presidente nazionale. Fedeltà alla classe lavoratrice, profondamente sentita anche perché già a 16 anni ero lavoratore figlio di lavoratori, fedeltà alla democrazia per essere forti nella libertà e nella giustizia, fedeltà alla Chiesa perché non vi può essere dissidio tra l’insegnamento sociale della Chiesa e il mondo del lavoro . Nella mia città di Catania, dove ho compiuto i miei studi sino alla laurea in legge, già nel 1940 ero stato costretto a non frequentare più il Circolo di Azione Cattolica “Contardo Ferrini”, della cui sezione giovanile ero il responsabile, perché era stato chiuso dai fascisti. Motivo: la pubblicazione di un giornale murale “L’Osservatore” da me fondato e diretto che dava notizie della nostra città ritenute eversive dal regime . Tra quei giovani redattori alcuni erano destinati a diventare giornalisti professionisti, anche con storie importanti come quelle di Livio Messina, Carmelo Di Gennaro, Candido Cannavò che poi lavorarono nel quotidiano di Catania “La Sicilia”. Candido Cannavò che, ancora ragazzo, in quel nostro murale si occupava dello sport, fu poi a lungo uno straordinario direttore della Gazzetta dello Sport, il più importante quotidiano sportivo italiano. Come impegno sociale alternativo, anche per alleviare il grande dolore causato dalla morte in guerra di mio fratello Domenico, avvenuta in Africa il 4 giugno 1942, a conclusione di una vita davvero straordinaria di cui molto si è parlato, mi ero impegnato nel Sedas, Segretariato diocesano attività sociali, che rappresentava a Catania l’ Icas, l’Istituto cattolico di attività sociale di Roma di cui era segretario generale Vittorino Veronesi. Da quella sede in forma quasi clandestina alla fine del 1944 mi giunsero notizie della prossima nascita di una associazione dei lavoratori cristiani. Infatti, ad iniziativa di Achille Grandi già responsabile del sindacalismo cristiano prima del fascismo, in vista della costituzione di un sindacato unitario dei lavoratori italiani, era stata richiamata l’attenzione delle autorità ecclesiastiche e di tutto il mondo cattolico sulla necessità di dar vita ad una associazione di lavoratori cristiani, ottenendone l’unanime consenso. Una apposita Commissione composta da Grandi, Veronesi, Pastore, Giannitelli, Palma, Righini, Tesini , curò la messa a punto degli elementi costitutivi della nuova associazione concludendo i propri lavori il 5 luglio del 1944. Così nascevano le Acli, una associazione nuova, in grado di unire tutti i lavoratori cristiani e di rappresentarli, come corrente sindacale cristiana, nel costituendo sindacato unitario. Come poi avvenne con la sottoscrizione del Patto di unità sindacale del 4 giugno 1944 che vide confluire nella Confederazione Generale Italiana del Lavoro- la CGIL – gli appartenenti alle tre correnti sindacali: quella comunista con Di Vittorio, la socialista con Canevari e quella cristiana con Grandi che era già a capo delle Acli.

Di Achille Grandi ricordo il cordiale, affettuoso incontro che ebbi con lui nel 1946 nell’Ospedale di Roma il Fatebenefratelli dove era ricoverato. Ricordo il suo appello a noi giovani e la sua esortazione a fare forti le Acli anche, mi disse, come diretto sostegno alla rappresentanza sindacale cristiana nella CGIL. In Sicilia, prima Regione liberata dal fascismo e dalla guerra, la proposta di dar vita alle Acli fu portata da Salvatore Gasparro, che già nel settembre 1944, rientrato dalla guerra, con un gruppo di amici di Palermo aveva aperto la porta alla nuova associazione con una iniziativa sostenuta dal Cardinale Luigi Lavitrano, arcivescovo di Palermo. Gasparro, dal maggio 1945, fu il primo Consigliere nazionale Acli siciliano e rappresentò la Presidenza centrale in Sicilia sino al suo trasferimento a Roma, dove assunse l’incarico del coordinamento organizzativo nazionale delle Acli. Anche nella mia città mons. Carmelo Patanè, arcivescovo di Catania, aveva appoggiato l’Idea di dar vita ad una associazione di lavoratori cristiani mettendo a disposizione alcuni locali per ospitarla. La proposta venne subito accolta dal giovane sacerdote don Giuseppe Serrano, da me e da un gruppo di giovani catanesi tra i quali ricordo Giuseppe Drago, Antonino Malara, Salvo Cavallaro, Gaetano Scuto, Giannina Polizzi, Nino Perrone, Onofrio Spitaleri, Gaetano Ferrini e Vito Scalia, che rivestirono poi nel tempo importanti cariche sindacali e politiche. Scalia fu il primo rappresentante della corrente sindacale cristiana nella Camera del Lavoro-CGIL- di Catania e poi vice segretario nazionale della Cisl, parlamentare della D.C. e ministro.

Lanciammo la proposta delle Acli con il primo manifesto cittadino stampato dopo la liberazione annunciando la costituzione della nuova associazione dei lavoratori cristiani che si proponeva di essere attivamente presente nel sindacato e nella società catanese. In meno di un anno le Acli di Catania erano attivamente presenti nel mondo del lavoro e nei Comuni della provincia. Conservo copia di una mia lettera del 27 agosto 1945 indirizzata a Salvatore Gasparro che fu per molti anni protagonista della costruzione organizzativa delle Acli a livello nazionale. In quella lettera dell’estate del 1945, con la quale rispondevo ad una sua del 20 agosto 1945, che certamente non era il primo contatto, protocollata in sede centrale a Roma con il n° 37/45, scrivevo: ”Le nostre speranze non sono state deluse. Un grande entusiasmo ci circonda e ci spinge al lavoro. Abbiamo in funzione Uffici, Consigli, Commissioni e il Patronato che svolge da tempo la sua attività. Abbiamo costituito i nuclei Acli nelle principali aziende cittadine, è iniziata l’attività della Commissione femminile e dei servizi sociali, a partire da quelli del tempo libero. ” Insomma già nel 1945, il movimento aclista a Catania e nella provincia era una realtà viva, diffusa ed efficiente. Presenza che si era via via concretizzata in altre province siciliane, con la guida da Palermo di Salvatore Gasparro, che a tale compito era stato chiamato dalla sede centrale sin dall’aprile 1945. Ricordo tra i primi dirigenti Gioacchino La Barbera a Palermo, Enzo Foti a Siracusa, Enzo Lauretta ad Agrigento, Nunzio Di Paola a Ragusa e Peppino Celi a Messina che poi mi succedette nella carica di Presidente regionale delle Acli in Sicilia. Io, dopo aver ricoperto le carche di Presidente provinciale a Catania, di Presidente regionale per la Sicilia, di Consigliere nazionale e componente la Presidenza Centrale dal 20 settembre 1948, mi trasferii a Roma alla fine del 1953 per poi assumere, dal 9 aprile 1954, l’incarico di Vice Presidente Centrale. L’inizio degli anni ’50 si era presentato irto di difficoltà a causa della incompiuta, in parte incompresa, conversione delle Acli da “espressione della corrente cristiana in campo sindacale” voluta dal Congresso nazionale del 25-28 settembre 1946 a quella di “movimento sociale dei lavoratori cristiani” sancita dal Congresso nazionale straordinario di Roma del 15-18 settembre 1948. Le decisioni di quel Congresso avevano portato allo scioglimento della corrente sindacale cristiana nella CGIL unitaria, aprendo la strada alla costituzione prima della LCGL -Libera Confederazione Generale Italiana del Lavoro- poi CISL, ma avevano creato gravi problemi alle Acli anche a causa del rilevante trasferimento di quadri, sedi e attività al nuovo sindacato. Difficoltà rese ancora più gravi da una pesante situazione finanziaria determinata dalla errata gestione di alcune attività economiche da parte dell’amministrazione centrale. Anche per questi motivi il Presidente Ferdinando Storchi , dopo il Congresso nazionale di Napoli del novembre 1953, aveva rassegnato le proprie dimissioni. Gli succedeva nella carica di Presidente centrale Dino Penazzato con un nuovo gruppo dirigente.

Voglio qui ricordare le doti di intelligenza, di straordinaria bontà e di forte legame alle Acli di Ferdinando Storchi che fu solo vittima di quegli errori. Nella nuova presidenza nazionale fui Vice Presidente centrale vicario con il mandato di concorrere al risanamento finanziario e di rilanciare tutti i servizi sociali del movimento. Compiti che con l’aiuto di tutti i dirigenti centrali e dei miei diretti collaboratori credo di aver assolto nel migliore dei modi. Intanto, grazie all’impegno di tutti, la situazione finanziaria aveva ritrovato un suo sostanziale equilibrio. Il Patronato Acli, di cui sono stato a lungo il Vice Presidente ebbe un grande sviluppo in Italia e all’estero ed una crescente popolarità, anche grazie alla “giornata del Patronato” che ho personalmente sostenuto partecipando per diversi anni a programmi radiofonici e televisivi della RAI.

Promossi e mi occupai personalmente dell’acquisto della sede del Patronato in via Monte Cenci a Roma. Episodio che merita una puntualizzazione perché ha rappresentato nel tempo una grande risorsa patrimoniale per il futuro delle Acli. Avevo appreso da un mio amico, Giuseppe Tudisco, parlamentare e Presidente dell’Ente Autotrasporti in liquidazione, la notizia della vendita di quell’immobile di tre piani in pieno centro a Roma. Ne trattammo le condizioni d’acquisto e, malgrado le riserve del consiglio di presidenza, d’intesa con il Presidente Penazzato e con il consenso del Consiglio nazionale, quella importante operazione andò in porto e in quei nuovi locali si trasferì il Patronato Acli consentendo migliori condizioni di lavoro a tutti gli altri uffici e servizi nella sede centrale. Infatti i locali di via Monte della Farina 64, come era stato più volte evidenziato in Consiglio di presidenza, erano diventati del tutto insufficienti ad ospitare tutte le attività della sede centrale. Fu importante in quegli anni anche il mio impegno per lo sviluppo delle attività sportive.

Avevo già verificato personalmente l’importanza dello sport nella Acli quando già nel 1945 avevo promosso la Polisportiva Acli-Virtus a Catania. Nel 1954 ero già impegnato alla promozione di una società Sportiva delle Acli. Proposta da me formalizzata nella seduta del Consiglio di Presidenza centrale del 21-22 dicembre 1955. Dell’Unione sportiva Acli sono stato poi il Presidente sino al 1962.

In quegli anni il Consiglio nazionale approvò su mia proposta il rilancio delle iniziative di formazione professionale dei lavoratori con la costituzione dell’Enaip –Ente Nazionale Acli per l’Istruzione Professionale- che fu da me diretto, con la collaborazione di Ercole Feroci, Alberto Riello e Mario Gilli, fino al 1962 e che conobbe in quegli anni uno straordinario sviluppo, con la promozione di molti centri permanenti di formazione professionale in tutte le regioni. Ho presieduto e diretto la Cooperazione nelle Acli. In particolare quella edilizia sovvenzionata, con la costruzione in tutte le regioni di centinaia di case per i lavoratori associati. Ho promosso il Centro Turistico Sociale e con Mario Magi curammo per anni la promozione di importanti attività artistiche e ricreative, una rete di filodrammatiche delle Acli ottenendo l’adesione di molti artisti anche professionisti come, tra gli altri, Silvio Noto e Vittorio Gassman.

In quegli anni si lavorò senza risparmio per costruire la casa delle Acli, il corpo del movimento, fatto dai Circoli e da servizi sociali in grado di rispondere alle richieste dei lavoratori associati. Lavoro che fu accompagnato da un significativo impegno per la formazione di nuovi quadri dirigenti delle Acli e dei Servizi. Nacque nel 1958 la Scuola centrale di formazione, con sede a Roma in Via Ulisse Seni n.2. L’obiettivo era quello di formare nuovi quadri per dare più forza ad “UN GRANDE MOVIMENTO OPERAIO CRISTIANO GUIDA DELLA CLASSE LAVORATRICE” Fu il tema del quinto Congresso nazionale tenuto a Bologna il 4-6 novembre 1955. Evento che fu lanciato, richiamando l’attenzione di tutti gli italiani, con quella che è stata e resta la più grande manifestazione popolare del mondo del lavoro di quegli anni: la festa del primo maggio 1955 a Roma, con una davvero straordinaria presenza di lavoratori, con tanti doni, tra i quali un peschereccio e diversi trattori, portati al Santo Padre Pio XII che volle ricambiare, come disse in udienza privata il 29 aprile a noi della presidenza centrale, con l’istituzione della festa liturgica di San Giuseppe lavoratore-artigiano. Non fu certamente facile nel 1955 organizzare il trasporto e la permanenza a Roma per 48 ore di oltre 300.000 lavoratrici e lavoratori. Dati ufficialmente riconosciuti sulla base del numero dei treni, dei pullmans e delle auto impiegati e dal calcolo della folla presente prima in Piazza Del Popolo e poi nell’interminabile scorrere del grande corteo dal Colosseo a piazza San Pietro. Di quella manifestazione fui il responsabile con designazione del Consiglio di presidenza del 13 gennaio 1955 e già nella seduta del 23 marzo 1955 potevo fornire i dati provvisori di oltre 75.000 adesioni registrate, che alla fine di aprile erano 250.000, con l’esclusione dei partecipanti di Roma e della regione Lazio. Vi dedicai cinque mesi di straordinario lavoro diurno e notturno, avvalendomi dell’aiuto totale e generoso delle donne e degli uomini della sede centrale e dei dirigenti provinciali e regionali, per risolvere i tanti problemi organizzativi. Mi piace qui ricordare il superamento dell’ostacolo rappresentato dalla corsa automobilistica “mille miglia” grazie ad un ponte costruito dal Genio militare sulla via Salaria per consentire il simultaneo passaggio delle auto in corsa e dei pullmans degli aclisti. Bisognerebbe rimettere in circolazione, magari con opportune revisioni e aggiornamenti, le straordinarie riprese cinematografiche di tutta la manifestazione curate dal bravo regista Ubaldo Magnaghi. Da quell’anno l’impegno delle Acli per la celebrazione della festa del lavoro con proprie manifestazioni non è più cessato. Ricordo quella del successivo primo maggio 1956 che vide a Venezia una grande folla di lavoratori cristiani provenienti dalle regioni veneto, friuli-venezia giulia e trentino alto adige, riuniti a Venezia, nella storica piazza Roma, per ascoltare un illuminato intervento del Cardinale Patriarca Roncalli ed il mio discorso commemorativo della festa del lavoro, con riferimento alla indimenticabile festa romana del primo maggio 1955. Quell’evento segnò il mio personale incontro con il card. Roncalli, futuro pontefice Giovanni XXIII° al quale la Fimoc e le Acli dedicarono nel maggio 1961 la celebrazione del settantesimo anniversario della “Rerum Novarum”. Anche quella manifestazione vide Piazza San Pietro ancora una volta gremita da lavoratori cristiani, questa volta provenienti da tutto il mondo. Di quello storico incontro ebbi la piena responsabilità organizzativa e conservo, come dono diretto e inatteso, il conferimento dell’ Ordine superiore di San Gregorio Magno come personale iniziativa di Papa Giovanni XXIII°. Insomma nelle Acli e per le Acli ero stato sino ad allora e per quasi venti anni un operatore e un costruttore organizzativo, dal primo Comitato provinciale di Catania, a quello regionale siciliano. Organizzando e presiedendo, come Vice Presidente centrale, congressi provinciali, regionali, il primo Congresso nazionale di Gioventù Aclista ad Assisi ed innumerevoli convegni delle Acli e dei servizi sociali del movimento. Rappresentando le Acli anche all’estero in occasione di eventi straordinari come fu il congresso nazionale semi-clandestino della HOAC nella Spagna franchista e, impresso nella mia memoria, il ricordo del mio viaggio in Belgio per essere vicino alle famiglie dei lavoratori ed agli aclisti nelle tristi giornate della tragedia mineraria di Marcinelle e dei quali conservo la lampada mineraria che mi hanno dedicato. Ho creduto fermamente nel ruolo dei Servizi sociali come modo d’essere del movimento e ne ho curato la promozione e la gestione in sede nazionale, impegnandomi senza risparmio alla loro attuazione in tutte le regioni. Questo impegno di lavoro non mi ha lasciato molto spazio per partecipare alla elaborazione del pensiero aclista rispetto ai grandi temi di politica sociale e alle conseguenti scelte che andavano fatte. Ma sono stato sempre attivamente presente alla elaborazione culturale e politica del movimento. Ho, tra l’altro, partecipato con il Presidente Penazzato e altri dirigenti centrali già presenti nella corrente DC “Forze Nuove” alla costituzione della nuova corrente “Rinnovamento” con l’intento di raccogliere i lavoratori cristiani presenti nella Democrazia Cristiana. Una corrente tra le altre, in un partito interclassista, intenta a perseguire obiettivi di giustizia e di progresso sociale nell’interesse dei lavoratori italiani. Le nostre rivendicazioni : la piena occupazione dei lavoratori, la riduzione delle diseguaglianze territoriali con particolare riferimento alle regioni meridionali, la promozione di un moderno sistema di welfare con una valida rete di servizi e interventi sociali perché non bastavano le norme previdenziali e il sistema pensionistico, un forte impegno per ottenere una più equa ripartizione, tra capitale e lavoro, delle ricchezze prodotte da un mercato che volevamo ben regolato, controllato ed articolato in imprese private, pubbliche, cooperativistiche e sociali. Inoltre io ho sempre sostenuto la necessità di un deciso impegno di lotta alla evasione fiscale, di cui fui sostenitore anche in virtù di una positiva esperienza che avevo maturato nel 1943 come impiegato presso l’Ufficio distrettuale delle imposte di Catania. Ma proprio da questa presenza nella politica prende corpo la linea della cosiddetta “incompatibilità” tra cariche nelle Acli e nella D.C.. Linea da me condivisa anzi potrei dire persino promossa sin dalla seduta del Consiglio di presidenza del 20 agosto 1953. Infatti insieme al consigliere nazionale e presidente regionale delle Acli siciliane Giuseppe Celi, avevamo preparato e presentato in Consiglio nazionale una relazione sulla situazione delle Acli nel sud, con la quale denunciando l’ambiguità tra cariche ricoperte nelle Acli e nei Partiti, e gli insopportabili condizionamenti che ne derivavano, chiedevamo di statuirne l’incompatibilità. In quegli anni erano molti i dirigenti delle Acli che ricoprivano cariche politiche e di partito tanto che si era costituito il gruppo dei parlamentari delle Acli. In presidenza centrale con il Presidente Penazzato anche i due vice presidenti Alessandro Buttè e Giovanni Bersani erano parlamentari. Io stesso, nel 1952, ero stato inserito nella lista della DC per la Sicilia Orientale a Catania, con iniziativa concordata a Roma tra il Segretario della D.C. Guido Gonella e il Presidente delle Acli Ferdinando Storchi, scatenando incredibili conflitti a livello locale risolti solo con il mio rifiuto della candidatura. Quella squallida esperienza aveva rafforzato il mio convincimento sulla necessità di fissare precise regole di incompatibilità tra cariche associative, partitiche e politiche. Posizione che mantenni nel Congresso Nazionale di Milano del 6-8 dicembre 1959 che accolse il principio della incompatibilità. In quel Congresso venni rieletto consigliere nazionale e poi confermato nella carica di Vice presidente vicario della nuova presidenza centrale di cui, in deroga alla norma sull’incompatibilità, era stato provvisoriamente rieletto presidente l’on.le Dino Penazzato. Dopo poco più di tre mesi, nella seduta del Consiglio nazionale del 10 aprile 1960 Penazzato, proprio in ragione della decisione congressuale, delle richieste dei dissenzienti e delle pressioni esercitate dalle autorità ecclesiastiche, rifiutò la deroga che gli era stata concessa dal Consiglio nazionale e rassegnò le proprie dimissioni. In quella sede, nel confermare la mia scelta, votai per Vittorio Pozzar presidente proprio perché era favorevole alla incompatibilità. Ma quel Consiglio Nazionale elesse alla carica di Presidente, pur con minimo scarto di voti, Ugo Piazzi. Io venni confermato nella carica di Vice Presidente e Pozzar in quella di Segretario centrale, mentre Livio Labor respinse con durezza l’elezione alla carica di secondo Vice Presidente che da tutti gli veniva proposta. La scelta di Piazzi, studioso seriamente impegnato nelle Acli sin dalla fondazione, ma contrario alla incompatibilità e con visioni politiche ritenute troppo moderate e non incisive, sostenuto dai parlamentari aclisti, segnò l’inizio di forti dissensi e di divisioni che io sin dall’inizio non condivisi ritenendole infondate e persino pretestuose. Posizione che avevo confermato, come risulta dal verbale della seduta di Presidenza dell’8 gennaio 1960, la prima dopo il Congresso di Milano, con Penazzato ancora Presidente in deroga alla norma sulla incompatibilità. In quella occasione, con riferimento alle forti preoccupazioni manifestate da alcuni componenti la Presidenza, affermavo che “la incompatibilità non è un male grave e irreparabile. Il Movimento è vitale a tal punto da poter esprimere altri uomini per le responsabilità di vertice. Sarebbe stato meglio comunque che il problema fosse maturato all’interno” senza le indebite pressioni dell’autorità ecclesiastica e “assicuravo la mia piena collaborazione e la mia volontà di fare il bene del Movimento”, accettando la delega del presidente per il Patronato, la responsabilità della guida dell’ENAIP, dell’U.S.Acli e delle attività ricreative. Circa due anni dopo, al Congresso nazionale di Bari dell’8-10 dicembre 1962, le Acli si presentarono ancora divise sempre sul tema dell’incompatibilità. Che peraltro era stata già sancita statutariamente e praticata dopo le dimissioni di Penazzato dell’aprile 1960. Che era stata superata anche dall’irrompere della candidatura di Livio Labor in contrapposizione a quella di Ugo Piazzi. Della lista di Labor e Pozzar condividevo il programma come risulta anche dal mio intervento congressuale. Ritenendo, però, non fondata la divisione che si era creata, che per la prima volta nei congressi delle Acli non vedeva una lista unica con libertà di scelta dei nomi ma due liste contrapposte , rifiutai la candidatura che mi era stata offerta da entrambi gli schieramenti. Quella mia scelta, condivisa da pochi, era stata pubblicamente apprezzata da Dino Penazzato, punto di riferimento fondamentale nella mia esperienza aclista. Penazzato era nato a Vicenza il 5 novembre 1913. Lui veneto, io siciliano, con tanto in comune, compresa la passione per la buona cucina e per i gelati siciliani. Ricordo le sue frequenti ma non durevoli grandi arrabbiature per inadempienze o errori commessi da colleghi e impiegati della sede centrale. Io ero l’unico a non soffrirne anche perché quando capitavano a me in breve si concludevano con un reciproco sorriso. Ricordo il nostro comune modo di concepire i servizi sociali nelle Acli come un modo d’essere del movimento. Di lui serbo tanti cari ricordi ma resta indelebile nella mia memoria l’elogio delle sue straordinarie doti umane e di uomo politico che alla sua morte, avvenuta a Roma il 15 giugno 1962, mi confidò personalmente l’on. Ugo La Malfa, allora autorevole Ministro dell’economia, durante il suo funerale nella Chiesa di S. Andrea della Valle, dove lui rappresentava il Governo ed io la presidenza delle Acli.

In questi giorni sto rileggendo il volume di Carlo Felice Casula “Le Frontiere delle Acli -Pratiche sociali, scelte politiche, spiritualità-) che contiene i verbali del Consiglio di presidenza centrale delle Acli dal 1944 al 1961. Il mio nome vi ricorre centinaia di volte con notizie sulla mia presenza e sui miei interventi nel corso di quelle riunioni. Interventi che facevo soprattutto per dar conto e proporre iniziative nell’area dei servizi sociali delle Acli, ma anche per una piena partecipazione a tutti gli eventi dell’associazione. Mi piace qui ricordare il mio ultimo intervento nella seduta di presidenza del 1 dicembre 1961 riportata nella pagina 719, ultima del volume di Casula. Dissi allora, riferendomi alle gravi fratture che si erano verificate tra i massimi dirigenti delle Acli, che “La situazione attuale è solo frutto di personalismi. Perché non adoperarci per raggiungere unitarie posizioni in sede di Congresso?”. Purtroppo le mie parole non ebbero ascolto. Le divisioni si erano fatte troppo profonde, certo anche per motivi politici, ma soprattutto perché erano dominate proprio da personalismi. Rimasi isolato seppur con qualche manifesta condivisione delle mie tesi, come quella di Salvatore Gasparro e di altri pochi amici. Conseguentemente a queste mie scelte nel Congresso di Bari, e per la prima volta, rimasi fuori dal Consiglio nazionale. Quella mia decisione mi costò il penoso allontanamento dai compiti di dirigente delle “mie” Acli. Penoso perché Livio Labor, appena eletto Presidente delle Acli, mi invitò a lasciare tutti gli incarichi che rivestivo e il lavoro nelle Acli che durava ormai da circa 20 anni. Anche la presidenza di quell’Unione Sportiva Acli, che avevo fermamente voluta, superando il manifesto dissenso di una parte del Consiglio nazionale. Presidenza che fu subito affidata, guarda caso, al Consigliere nazionale Carlo Borrini: uno dei principali esponenti della corrente che al Congresso di Bari era contraria alla incompatibilità dei dirigenti aclisti con cariche politiche.

La ricerca di un lavoro alternativo non fu per me un problema perché Il Ministro del lavoro, On. Fiorentino Sullo, che aveva rappresentato il Governo al Congresso di Bari mi aveva già offerto un ruolo di direzione nell’Inapli, un importante ente pubblico di formazione professionale. Mi disse che aveva molto apprezzato il lavoro da me compiuto nelle Acli e nell’Enaip e il ruolo che avevo avuto, con Giuseppe Rapelli ed altri, nella Commissione ministeriale incaricata della messa a punto delle linee politiche e della nuova legge per la formazione professionale in Italia. Risultò invece molto penoso per me il tentativo di rientrare con ruolo attivo nelle Acli romane allora presiedute da Lamberto Bertucci. Di fatto mi fu impedito, ne conoscevo i motivi ma preferisco non parlarne qui. Da allora sono solo un aclista. Uno che crede nell’associazione, nel movimento dei lavoratori cristiani e nella loro triplice, irrinunciabile fedeltà. Mi resta il conforto di essere ancora presente nel Consiglio nazionale dell’U.S.Acli quale primo presidente. Presenza che cerco di onorare, malgrado il crescente peso degli anni. Come ho fatto anche il 9 giugno 2011, in occasione della presentazione al Coni del premio che l’U.S.Acli ha voluto dedicare ad Enzo Bearzot allenatore della nazionale vincitrice della coppa del mondo nel 1982, di cui ero amico perché era stato giocatore con successo nel Club Calcio Catania, promosso per la prima volta in Serie A nel 1953-54, quando io ne ero il presidente. Allora il più giovane e squattrinato presidente del calcio italiano che in sede di Lega Calcio sin dal 1953 aveva sostenuto, senza successo, l’esigenza di porre un limite all’ingiusto e insopportabile lievitare dei costi di ingaggio e delle retribuzioni dei giocatori, da cui deriva l’interminabile crisi finanziaria del calcio italiano.

Nel 1964 mi giunse la richiesta, caldeggiata da autorevoli fonti ecclesiastiche e politiche, di dare una mano per salvare esperienze e patrimonio del servizio sociale della Poa-Onarmo in vista dello scioglimento di quelle Opere allora presiedute da mons. Abramo Freschi. Si trattava di dar vita ad un nuovo ente, una Fondazione, in grado di assicurare innovandole le esperienze di quasi venti anni del servizio sociale Onarmo. Idea per me molto interessante perché a lungo avevo pensato di arricchire il lavoro di assistenza del Patronato Acli attivando iniziative di formazione, aggiornamento e impiego di assistenti sociali. In qualche modo mi sembrava di tornare al mio impegno sociale proprio delle Acli. Verificata l’incompatibilità tra il mio lavoro di direzione nell’Inapli e l’incarico che mi veniva offerto di segretario generale della nuova Fondazione decisi di lasciare l’impiego pubblico e iniziai a lavorare per dar vita all’Ente Italiano di Servizio Sociale. Mi furono vicini, oltre al Presidente Mons. Abramo Freschi e a vari dirigenti Onarmo tra cui anche mons. Giovanni Nervo e Ugo Piazzi già Presidente delle Acli, diverse importanti personalità del servizio sociale italiano. L’Eiss è stato per me un impegno totale per tanti anni e ancora oggi, tra l’altro, sono direttore responsabile della rivista dell’Eiss “Rassegna di Servizio Sociale” giunta al suo 52° anno di pubblicazione. Un impegno che fu segnato allora anche da incontri-scontri con altre attività derivate dalle Opere fondatrici. Infatti al fine di salvaguardare l’impiego del personale Onarmo che vi era impiegato Ugo Piazzi fu chiamato a trasformare l’associazione delle Pie Unioni Onarmo in una nuova formula associativa. L’intento era di trasformare quelle Pie Unioni in un movimento di cittadini particolarmente impegnato nel controllo e nella gestione diretta dei servizi sociali, che fu espresso nella formula Ancol-Ipas. Iniziativa che ebbe uno straordinario successo di adesioni negli anni ’70 in Italia e all’estero, anche grazie al mio contributo come Dirigente di quel Patronato, ma che fu spazzato via da un proditorio attacco di marca radical-fascista alla fine degli anni ’70. Alcuni magistrati romani ritennero allora che i normali rapporti tra le associazioni dei lavoratori ed i patronati da loro promossi potessero configurare, nei loro rapporti di comune gestione di sedi e attività, il reato di peculato per distrazione. Senza tener conto che proprio i sindacati e le associazioni promuovevano , con proprie risorse, i loro patronati e ne gestivano le attività avendo tutti alcune spese in comune, come quelle delle sedi e dei servizi che vi erano connessi. Dimostrammo che noi avevamo sempre tenuto debitamente distinti i pagamenti e le relative documentazioni. Ma quell’azione era diretta, come personalmente ho verificato, contro tutti i Patronati e, in particolare, contro Inca-Cgil, Inas-Cisl, Ital-Uil e Acli. Ma solo Ugo Piazzi, io e pochi altri ne avevamo pagato le amare conseguenze, affrontate con ferma determinazione, uscendone tutti con onore per manifesta e riconosciuta inesistenza degli addebiti. Per chiudere quella vicenda era intervenuto anche il Parlamento, d’intesa con le organizzazioni sindacali, chiarendo con apposita legge la natura privata dei patronati e dei rapporti con le associazioni che ne curano la gestione. Quell’episodio segnò la lenta ma inesorabile fine di quel movimento Ancol-Ipas al quale con Ugo Piazzi, Franco Chittolina, Giuseppe Drago, Ercole Feroci, Tina Bosco e tanti altri, avevo dedicato alcuni anni del mio impegno sociale.

Dal 1980, quale Segretario Generale prima e poi come Presidente dell’Eiss, sono stato molto impegnato nel servizio sociale italiano. Ho rivestito a lungo anche la carica di Vice Presidente Vicario del Comitato Italiano di Servizio Sociale -CISS- di cui furono Presidenti prima il Senatore Cifarelli e poi il Senatore Ossicini. Il CISS allora rappresentava l’Italia nel l’ICWS -Organismo primario dell’ONU. L’Eiss sin dal 1965 è stato un importante protagonista delle politiche sociali e del servizio sociale italiano. Un impegno straordinario di lavoro venne svolto con successo in favore dei lavoratori che si spostavano, con le loro famiglie, dal sud verso il nord d’Italia e che emigravano in Europa e in particolare in Germania. Decisivo risultò il sostegno dato da Giulio Pastore già dirigente delle Acli e Segretario Generale della Cisl e allora Ministro per il mezzogiorno che affidò all’Eiss con apposite convenzioni il compito di assistere i lavoratori meridionali e le loro famiglie che si spostavano dalle regioni meridionali verso Torino e il Piemonte. Dal sud al nord, dalla campagna alla città, dall’agricoltura all’industria: una grande trasformazione per quei lavoratori e per le loro famiglie. Gli assistenti sociali dell’Eiss, di cui avevamo ottenuto l’attiva presenza, in virtù di apposite convenzioni, in tutti gli uffici provinciali e regionali del Ministero del Lavoro e nei Centri di Emigrazione, ampliarono i loro interventi presso appositi “Centri di servizio sociale” aperti dall’Eiss in molti Comuni di partenza e di arrivo dei lavoratori migranti. In quei Centri furono sperimentati e attuati nuovi servizi sociali. Dal servizio sociale professionale territoriale, per l’aiuto diretto ai lavoratori e alle loro famiglie, a quello del“segretariato sociale”per assicurare puntuali e tempestive informazioni su tutte le risorse disponibili nei luoghi di arrivo. E’ stato un lavoro straordinario ed intenso, durato quasi trenta anni, al servizio dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. Di tali servizi furono pubblicati e diffusi gli standard. Oltre 500 assistenti sociali furono formati, sostenuti da una rete di supervisione professionale attiva in tutte le province, e impiegati in Italia e anche all’estero. In Germania, ad esempio, nella città di Friburgo l’Eiss gestì per un triennio una sezione della propria Scuola Superiore di Servizio Sociale di Roma, assicurando la formazione e l’impiego in tutte le regioni della Germania, di assistenti sociali con la concreta realizzazione, in collaborazione con la DCV -Caritas tedesca-, di essenziali servizi di aiuto ai tanti italiani immigrati.

Desidero qui ricordare che alla fine del 1995, dopo studi approfonditi sulla condizione degli anziani in Italia, compiuti con il prezioso contributo di Tina Bosco, di esperti e di altri organismi, l’Eiss lanciò la “Carta dei Diritti degli Anziani” e dette vita al Comitato Italiano per i diritti degli anziani COMIDAN. Di questo nuovo organismo di cui avevo curato la costituzione, chiesi a Livio Labor di assumerne la presidenza. Incarico che accettò volentieri e che ricoprì, operando con grande dedizione e con successo, nella comune sede Eiss. Gli sono stato molto vicino nell’impegnativo lavoro del COMIDAN, di cui ero Vice Presidente insieme al prof. Vincenzo Marigliano che poi lo ha assistito sino alla sua morte avvenuta il 9 aprile 1999. Livio Labor nella sede Eiss lavorò per quasi quattro anni nella stessa stanza che era stata occupata da Ugo Piazzi, Presidente dell’Eiss dopo lo scioglimento delle Opere fondatrici. I due competitori aclisti degli anni ’60, mi piace qui ricordarlo, hanno concluso la loro vita di lavoro e di impegno sociale nella casa dell’Eiss. La vita della Fondazione “Ente di Servizio Sociale -Eiss-” costituita dalle Opere POA-ONARMO il 7 agosto 1964, riconosciuta con DPR del 30 luglio 1966, è stata caratterizzata da persistenti gravi difficoltà esistenziali. Una crisi derivata dal fatto che ancora oggi, a distanza di quasi 50 anni, è stato versato solo un terzo della dovuta dotazione patrimoniale, non sono stati pagati gli importi per gli oneri del personale, che era dipendente da quelle Opere e che, per salvaguardarne l’impiego, era stato trasferito al nuovo ente senza la dovuta copertura finanziaria. Situazione confermata dal fatto che quel personale, del quale anch’io facevo parte, continuò a svolgere il proprio lavoro negli stessi locali, con gli stessi compiti e per le stesse attività prima svolte dalle Opere fondatrici al terzo piano dell’immobile di viale Ferdinando Baldelli n.41 in Roma. Immobile di cui quelle Opere erano proprietarie e che avevano costruito a proprie spese su un terreno di mq. 2.787,40 acquistato dalla Santa Sede, con regolare atto di compravendita del 25 luglio 1957, dietro versamento di lire 61.322.800, per la costruzione di ”uffici, magazzini ed eventuali abitazioni per il personale dipendente.” Risulta dall’atto costitutivo dell’Eiss del 7 agosto 1964 e dal verbale della POA del 30 settembre 1964 che le istituzioni fondatrici dotarono la Fondazione “di un patrimonio di trenta milioni, di cui solo dieci versati, si impegnarono a garantire la copertura dei disavanzi di bilancio e lasciarono all’Ente le attrezzature, le sedi e gli uffici della POA-ONARMO, assicurando alla sede centrale dell’Ente tutti i servizi annessi al suo funzionamento.” Nel 1970, in previsione del loro scioglimento, le Opere fondatrici modificarono lo statuto dell’Eiss, che fu ratificato dai competenti organi governativi, e lasciarono definitivamente a totale disposizione della Fondazione tutte le attrezzature degli uffici e l’uso delle sedi della POA-ONARMO sino ad allora utilizzate dall’Eiss, compresi quelli della Scuola Superiore di Servizio Sociale ONARMO, trasferita da quelle Opere all’Eiss. La verità sta nel fatto che POA-ONARMO venivano sciolte per dar vita alla Caritas Italiana, ma la Segreteria di Stato di Sua Santità, con lettera di S.E. Mons. Benelli del 2 marzo 1970 n.153344, raccomandava al Presidente della POA di assicurare la sistemazione di tutto il personale che era prevalentemente dipendente dai servizi sociali di quelle Opere. Sistemazione che doveva avvenire prima del loro scioglimento, già avviato a cura della Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica APSA . Ma tra il 7 agosto 1964, data della sua costituzione con la nomina a Presidente Eiss dello stesso Presidente di POA-ONARMO e con la mia nomina a Segretario Generale, responsabile della esecuzione delle decisioni degli organi amministrativi, e il 2 marzo 1970 data della lettera di Mons. Benelli erano trascorsi cinque anni. L’Eiss era divenuto una fondazione riconosciuta con D.P.R. n.769 il 30 luglio 1966, la nuova direzione , grazie al lavoro della segreteria generale ed al mio totale impegno personale, aveva programmato e attuato straordinari interventi di servizio e di assistenza sociale che avevano consentito il trasferimento di quasi tutto il personale di servizio sociale della POA-ONARMO all’Eiss. Trasferimento che era avvenuto senza il pagamento dei dovuti fondi di quiescenza e senza la relativa copertura finanziaria. Nella rivista “Rassegna di Servizio Sociale” dell’ONARMO, passata anch’essa all’Eiss con il suo carico di debiti e di personale, e nei volumi della Collana Eiss “Problemi sociali del nostro tempo” sono pubblicate e documentate le notizie che riguardano il lavoro svolto in quegli anni e di cui prima ho dato alcune essenziali informazioni. Insomma l’Eiss dal 1966 in poi ha avuto i propri bilanci in equilibrio per quanto riguardava entrate e uscite riferite agli esercizi correnti ma con un rilevante squilibrio della situazione patrimoniale dovuto alle inadempienze delle Opere fondatrici e poi dell’APSA che ne ha ereditato l’ingente patrimonio. Della questione allora si fece carico la Conferenza Episcopale Italiana che nel 1975 promosse una apposita Commissione, presieduta dal suo Vice segretario S.E. Mons. Gaetano Bonicelli e composta dai rappresentanti di POA-ONARMO, Caritas italiana e degli enti nati da quelle Opere, da me rappresentati. La Commissione, dopo nove intense sedute, acquisita e verificata la documentazione presentata dall’Eiss, concludeva i propri lavori il 18 luglio 1975 con la sottoscrizione di un verbale nel quale è scritto tra l’altro che, dopo attento e approfondito esame delle singole partite, si riconosceva che: “il fondo patrimoniale era stato trasferito parzialmente, non erano stati trasferiti i fondi di quiescenza del personale e al momento del passaggio a gestione autonoma il bilancio dell’Eiss registrava un disavanzo.” Disavanzo che, con riferimento alla documentazione presentata, verificata e allegata al verbale, al momento del passaggio ammontava a Lire 596.911.499. In quella occasione la Commissione CEI nulla eccepì rispetto alla richiesta dell’Eiss di continuare ad avvalersi del diritto all’uso gratuito dei locali della propria sede centrale , con distinto ingresso da Via Colossi 50. Come era stato assicurato dalle Opere fondatrici che ne erano proprietarie, perché quell’immobile era stato da loro costruito a proprie spese, per ospitare uffici magazzini e personale, su un terreno acquistato dalla Santa Sede dietro pagamento di Lire 61.322.800. Sembrava, dunque, che l’intera questione fosse stata risolta con equità. Ma passavano gli anni senza che nulla accadesse malgrado le insistenti sollecitazioni indirizzate dall’Eiss all’Ufficio Stralcio POA-ONARMO costituito dall’APSA. Non solo ma l’intero immobile, del quale POA-ONARMO avevano assegnato all’Eiss il terzo piano, in virtù della extra-territorialità del terreno sul quale era stato costruito veniva concesso dall’APSA in uso gratuito alla Caritas italiana. Aveva così inizio una interminabile contestazione del diritto all’uso gratuito da parte della Fondazione Eiss della propria sede centrale tanto che, proprio per questi motivi, il vigilante Ministero dell’Interno fu investito della questione. Ebbe così inizio una gestione straordinaria della Fondazione che dal 1980 si protrasse per oltre venti anni dando luogo a contorte manovre con Caritas italiana, guidate dall’ APSA e dal suo presidente card. Attilio Nicora, mirate non solo a non pagare quanto dovuto all’Eiss ma anzi a pretendere dalla Fondazione il pagamento di un affitto non dovuto per la propria sede. Manovra che era in definitiva diretta a sfrattare l’Eiss, ma anche la Caritas, da quell’edificio come è avvenuto: senza danno per la Caritas italiana che si è trasferita in altro edificio della CEI, ma con danno irreparabile per l’Eiss che ora dispone di pochi piccoli locali, messi a disposizione dalla Amministrazione provinciale di Roma, riservati alle emergenze e alla redazione della rivista, mentre mobili documenti archivi e biblioteche ancora oggi sono nella vecchia sede a rischio di rottamazione. Come era stato già deciso l’edificio di V.le Baldelli è stato assegnato all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Personalmente sono lieto che quei locali, dove in tanti abbiamo intensamente lavorato con l’Eiss e per il servizio sociale italiano, siano ora occupati da un’opera importante destinata al bene dei bambini e delle loro famiglie.
Ma mi domando perché questa lodevole operazione è stata fatta a danno di altri? Perché i diritti di una Fondazione che da 50 anni opera nel “rispetto dei valori civili e cristiani dell’uomo e della società” (art. 2 dello statuto) e le legittime attese del personale che vi è stato impiegato debbono restare disattesi, mentre con una onorevole transazione era ed è ancora possibile risolvere la annosa questione?
Perché si è preferito, prima con prolungati inspiegabili silenzi e poi con manovre dilatorie davvero squallide, negare diritti certi ad un ente benemerito ed al personale che vi ha bene operato, fino al discutibile sfratto dalla propria sede, della quale era stato dotato dalle Opere fondatrici? Suppongo che queste domande, more solito, rimarranno senza risposta, mentre una spiegazione forse ci sarebbe: prima del loro scioglimento le Opere fondatrici decisero di trasferire il governo dell’Eiss ad Enti ed a persone da loro liberamente scelti. Non più direttamente dipendenti dalla superiore autorità ecclesiastica, ma certamente fedeli alla Chiesa e alla dottrina sociale cristiana. Come fu il primo presidente Ugo Piazzi, già Presidente nazionale delle Acli e allora alto dirigente dell’Onarmo. Ed il sottoscritto, primo segretario generale Eiss, già impegnato sin dal 1944 nella costituzione delle Acli, delle quali per 10 anni è stato vice presidente nazionale, insignito motu proprio dal Santo Padre Giovanni XXIII° dell’Ordine Superiore di San Gregorio Magno. Quelle decisioni con tutta evidenza non risultarono gradite alla presidenza APSA del tempo, forse perché si trattava di “laici” cattolici, non di “ecclesiastici” come i loro predecessori. Anche se all’Eiss nel tempo non sono mancate significative collaborazioni e autorevoli adesioni del mondo ecclesiastico. Ricordo tra l’altro l’attiva presenza del Vescovo Mons. Augusto Lauro e in modo particolare la lettera del 5 giugno 2005, a me indirizzata quale Presidente, con la quale il Santo Padre Benedetto XVI° formulava “cordiali auspici di sempre più generosa e proficua attività di ricerca e di formazione per la Fondazione EISS”
Quanta amarezza nel ricordare questi eventi anche perché tanto danno è stato ingiustamente arrecato non solo alla Fondazione Eiss ma anche a molte persone che vi hanno lavorato con dedizione e competenza. E che in parte continuano nel loro impegno volontario di servizio, avendo come riferimento “Rassegna di Servizio Sociale” la rivista fondata proprio dall’Onarmo nel lontano 1962 e ininterrottamente gestita dall’Eiss sino ad oggi.

Roma, 31 dicembre 2012

IL SIGNOR B.

IL SIGNOR B.

Sono in tanti gli italiani che hanno creduto e in parte continuano a credere nelle grandi doti di imprenditore e di uomo politico di Silvio Berlusconi. Tanti che, pur essendo minoranza nel paese, gli hanno consentito con il loro voto oltre 3.200 giorni di governo. Le ultime elezioni del maggio 2008, grazie alla legge elettorale da tutti definita “porcellum”, gli hanno consegnato una maggioranza mai vista nei due rami del parlamento. Un grande potere politico che però non ha saputo utilizzare per risolvere i problemi dell’Italia e per fronteggiare l’incombente crisi economica internazionale. Anzi ha messo in luce l’incapacità del suo governo di dare attuazione alle molte promesse ripetutamente fatte. Non ha saputo fronteggiare con il suo governo la grave crisi economica che ha colpito anche il nostro paese. Non è riuscito ad impedire il disfacimento della sua stessa maggioranza.

A chi ne contesta qualità e competenze i suoi diretti sostenitori e molti dei suoi elettori ancora oggi rispondono che si tratta del più grande imprenditore italiano degli ultimi tempi. Uno, dicono, che si è fatto grande da solo, con la capacità di creare nuove imprese, di produrre grandi ricchezze per se e lavoro per tanti italiani. Proviamo a vedere se è proprio vero.

Quali e quante sono le imprese nate dalle sue doti di imprenditore e quanti nuovi e stabili posti di lavoro ha saputo creare?

Silvio Berlusconi è nato a Milano il 29 settembre 1936. Il padre Luigi lavorava nella “Banca Rasini”di Milano, punto di riferimento molto importante per il suo futuro di imprenditore. Si è laureato brillantemente in giurisprudenza nel 1961, discutendo una tesi su “Il contratto di pubblicità per inserzione” rivelatrice della sua vera vocazione professionale. La sua prima impresa, però, è stata la “Cantieri riuniti milanesi” s.r.l. fondata con il costruttore Pietro Canali che, grazie ad una straordinaria fideiussione concessa dalla “Banca Rasini”, consentirà l’acquisto di una importante area edificatrice a Milano. Nel 1962, con una nuova società la “Edilnord sas di S. Berlusconi e C. avvalendosi di capitali svizzeri costruisce a Brugherio un centro residenziale denominato Milano 1 cui farà seguito la Milano 2 – 3 ed altro ancora.

Insomma Silvio Berlusconi imprenditore in quegli anni è stato un apprezzato “palazzinaro”, al pari dei tanti che operano a Milano a Roma e in molte altre città italiane, impegnato nella costruzione di abitazioni con l’impiego di un limitato e precario numero di lavoratori.

Nel 1978 però quella società viene liquidata e nasce una nuova società che registra il suo incontro con Marcello Dell’Utri, siciliano di Palermo, con il quale realizza un sodalizio caratterizzato da un vortice societario che porta Berlusconi dal campo edilizio a quello televisivo e pubblicitario. Era già nata a Roma nei primi anni 70 “Fininvest” e a Milano “Telemilano”. Poi, il 30 settembre 1980, “Telemilano” si trasforma in “Canale 5”, nel settembre 1982 viene acquistata da Edilio Rusconi la proprietà di “Italia 1” cui farà seguito nel 1984 l’acquisto dalla Arnoldo Mondadori Editore di “Retequattro” che nel 1996 confluiscono nel circuito televisivo “Mediaset” che con “Pubblitalia” realizzerà, grazie ad una intensa e incessante raccolta pubblicitaria, incassi miliardari. Nell’agosto 1990, avvalendosi della nota Legge Mammì, avrà di fatto l’egemonia nella raccolta della pubblicità, che si estenderà ulteriormente con la concessione di altri canali televisivi. Infine, con l’avvento del digitale terrestre, riesce a moltiplicare i suoi canali televisivi. Insomma la pubblicità è la vera, principale risorsa su cui poggia la galassia Fininvest tanto che il suo direttore finanziario Marco Giordani, di fronte a recenti difficoltà in borsa, ha potuto affermare che “quando la pubblicità ripartirà, girerà anche il vento in borsa.” Per quanto riguarda l’acquisto della “Mondadori” sono note le vicende giudiziarie, che hanno portato all’arresto e alla condanna dei protagonisti, mentre per le questioni di evasione fiscale legate alle attività di produzione e distribuzione cinematografica il discorso è ancora aperto. Con l’acquisto della Mondadori Berlusconi ha consolidato la sua presenza nell’area editoriale nella quale era già presente grazie all’acquisto della società editrice di “Il giornale” di Indro Montanelli, la cui gestione ha poi passato al fratello Paolo. La galassia che fa capo a Fininvest comprende Mediaset (televisioni e cinema), Mondadori (editoria), Mediolanum (servizi finanziari), il Teatro Manzoni, l’Associazione Calcio Milan ed altre numerose ma secondarie partecipazioni. Da quando Berlusconi è “sceso in campo”nel 1994 molti giustamente si chiedono se non sussistono giusti motivi per invocare un clamoroso conflitto di interessi tra il suo ruolo di imprenditore, che si avvale di risorse pubbliche, e le cariche di governo del Paese.

Insomma alla fine si può concludere che Berlusconi è un capace imprenditore, soprattutto in campo televisivo. E’ un abile e persino disinvolto uomo d’affari, come ha dimostrato con l’acquisto di emittenti televisive già esistenti, che hanno potuto prosperare grazie ad un uso disinvolto della pubblicità. Al riparo della concorrenza della RAI, costretta a trasmettere solo un quinto della pubblicità trasmessa dalle sue reti.

E, a proposito di pubblicità, va detto che può essere utile servizio se viene usata nella misura e nelle forme giuste per informare i cittadini sui loro acquisti e per la crescita del mercato. Ma quando si rivela invasiva e perfino falsa può portare i cittadini ad acquisti non necessari e non sopportabili dalle famiglie e comunque porta sempre alla crescita dei prezzi di cui gli acquirenti pagano il costo. Quando la pubblicità è in eccesso diventa un modo subdolo per “mettere le mani nelle tasche degli italiani”che pagano costi assolutamente non necessari e non dovuti. Che la pubblicità in Italia sia eccessiva non c’è bisogno di cifre per dimostrarlo: basta ascoltare la radio, guardare la televisione, leggere i giornali e guardarsi intorno per verificarlo. E di questo eccesso di pubblicità trae profitto soprattutto chi la produce e la diffonde.

Si deve annotare, a proposito delle doti imprenditoriali di Berlusconi, che nel 1986 ha comprato il Milan calcio, nel 1988 ha comprato dalla Mondadori la “Standa” trasformata nella “Casa degli italiani”, nel 1992 ha acquistato “Mirabilandia”e nel 1997, entrato nel settore directory, le “Pagine Utili”. Di questi acquisti gli è rimasto solo il Milan, abilmente diretto da Galliani, con grandi successi sportivi.

Nella Galassia Fininvest S.p.A. secondo recenti dati da loro forniti lavorerebbero 19.102 persone, di cui 3.750 nella Mondadori, ma non si sa quanti siano nuovi assunti e quali le modalità dei loro rapporti di lavoro. Comunque si tratta di un numero importante di lavoratori, come quello impiegato in altre aziende, ma davvero insignificante rispetto ai numeri del mercato del lavoro italiano.

Ora provo a fare qualche riflessione conclusiva. La maggior parte delle imprese che fanno capo a Silvio Berlusconi sono animate dalla televisione e, con essa, dalla pubblicità. Egli ha sempre creduto, sin dalla sua tesi di laurea, nello straordinario potere delle televisioni perché con il loro uso incondizionato si possono stabilire e gestire rapporti quotidiani con la gente, per indurla a fare qualcosa, magari non per proprio autonomo convincimento ma perché viene loro “inculcato”. Termine già usato da Berlusconi parlando della scuola, come equivalente di “educare”. Ma qualcuno dovrebbe spiegargli che educare significa formare il carattere, far crescere una persona. Inculcare al contrario significa fare entrare, imprimere nella mente: proprio quello che si fa con i messaggi pubblicitari. Che non valgono e non dovrebbero mai valere nella scuola, nella politica e nella società, dove tutto dovrebbe essere diretto sempre a far crescere scolari formati e cittadini informati, nel pieno rispetto delle loro personalità e delle loro libere scelte.

Roma, 19 settembre 2011 Giuseppe Rizzo

Oltre la crisi

L’Italia vive una delle fasi più problematiche della sua storia recente.

Sono molti i politici, gli economisti, i sociologi ed i giornalisti che ne discutono. Spesso facendo, come si usa dire, di tutta l’erba un fascio. La verità è che il nostro paese non si potrà riprendere se prima non affronta, con estrema decisione e concretezza, e non risolve, i suoi antichi problemi: la criminalità organizzata; l’insostenibile disparità tra politiche e interventi economici, dominati da un mercato senza adeguate regole e controlli, rispetto agli interventi nell’area dei servizi sociali, della cultura e della formazione; la corruzione e l’evasione fiscale generate dal mancato rispetto delle leggi.

Facendosi carico, contestualmente, di una profonda riforma dell’assetto e dell’organizzazione politica e amministrativa a tutti i livelli. Riducendo il numero dei deputati e dei senatori. Rivedendo le regole di funzionamento delle regioni, delle provincie e dei comuni ed il numero dei componenti i relativi consigli e organi di governo. Riducendo drasticamente gli emolumenti di tutti gli eletti e della rete di consulenti e assistenti. Eliminando l’attuale, pesante presenza dei partiti nelle istituzioni e nei servizi pubblici, a partire dalla Rai. Contrastando con forza, con norme intransigenti, ogni forma di corruzione.

Restituendo ai cittadini il pieno diritto di scegliere ed eleggere i propri rappresentanti a tutti i livelli amministrativi e politici.

Un simile processo di profonda revisione e aggiornamento non è certo facile ma è possibile. Come è possibile diffondere la cultura della legalità, a partire dalle scuole e da tutte le sedi associative, coinvolgendole in programmi di conoscenza e di pieno rispetto delle leggi che regolano la convivenza civile. Isolando sempre più quelli che non lo fanno. Tanti paesi l’hanno fatto prima di noi con risultati eccellenti.

Per quanto riguarda la criminalità organizzata il problema deve essere affrontato innanzi tutto a Roma e da Roma. Tagliando radicalmente qualsiasi contatto tra politica nazionale e cosche locali. Come non è stato fatto con la mafia siciliana dove, per citare qualche nome, persone coinvolte in processi di mafia come Lima e Ciancimino prima, e poi Cuffaro, Dell’Utri e tanti altri hanno avuto sostanziale copertura dai loro diretti referenti nazionali. Lo stesso avviene con la ndràngheta calabrese e con la camorra campana. Bisogna individuare e perseguire qualsiasi rapporto tra criminalità organizzata e operatori politici ed economici con un sistematico controllo delle realtà produttive a livello locale.

Deve essere più diffusa, rapida e pesante la confisca dei beni delle criminalità organizzate e il loro immediato e vigilato impiego per finalità contrapposte, sostenendo adeguatamente i destinatari del loro utilizzo. Tutto questo deve essere realizzato con la puntuale messa a punto di un organico piano di interventi a tutti i livelli, sistematicamente aggiornato.

Altrettanto importante per il futuro dell’Italia e delle nostre comunità è la lotta alla evasione fiscale. Fenomeno di grandi dimensioni da affrontare con una riforma fiscale fondata sull’equa distribuzione dei carichi fiscali. Chi più ha e guadagna, più paghi. Riforma che deve essere accompagnata da una lotta senza quartiere contro tutti gli evasori grandi e piccoli.

Ho vissuto personalmente e con successo una esperienza di lotta alla evasione fiscale in tempi assai remoti: e la voglio raccontare. Nel 1942, appena compiuti 18 anni, venni militarizzato e impiegato in “sostituzione di richiamati alle armi” all’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Catania. Mi venne affidata la Categoria C2 che comprendeva tutte le libere professioni (medici, avvocati, ecc.) con l’incarico di procedere all’accertamento delle loro dichiarazioni di reddito. Con mia grande sorpresa vidi che tali dichiarazioni erano palesemente false: quasi tutti dichiaravano redditi inferiori a quello di un modesto impiegato. Mi feci carico di controllare, con visite presso tutti gli studi professionali della città, la fondatezza di quelle dichiarazioni, raccogliendo ogni utile documentazione per poi chiedere la revisione delle dichiarazioni rese e, sulla base dei nuovi accertamenti, il pagamento di quanto dovuto, arretrati compresi. I giornali del tempo pubblicarono con grandi titoli “Finalmente si pagano le tasse” ed era assolutamente vero.

Dopo l’arrivo delle forze alleate, liberata Catania dal fascismo, con una manifestazione che si disse organizzata dall’ EVIS -Esercito Volontari per l’Indipendenza della Sicilia- l’Ufficio delle Imposte di Catania venne saccheggiato, ma solo i mobili e le carte del mio ufficio vennero buttati giù dal balcone e bruciati nella piazza sottostante. Ma di tutte quelle pratiche avevo fatto copia, custodita in altra ala del palazzo, che poi vennero bene utilizzate.

Da questa mia remota esperienza traggo il convincimento che solo mobilitando, formando e motivando i dipendenti del Ministero delle Finanze e di altre strutture pubbliche, presenti nelle varie sedi periferiche delle amministrazioni dello Stato, sarà possibile sconfiggere l’evasione fiscale. Ma occorre un unico progetto mirato a redigere una anagrafe tributaria che registri l’attività ed i redditi di ogni cittadino e di ogni famiglia. Non basta la lodevole attività della Guardia di Finanza e l’adozione di utili procedure di generico controllo. E’ indispensabile una costante, sistematica attività di accertamento individuale, a livello locale, provinciale, regionale e nazionale, con l’utilizzazione di tutti gli strumenti utili come quello sulla tracciabilità, il tutto regolato da appositi provvedimenti legislativi.

Una parte del personale delle Amministrazioni regionali, provinciali e comunali, di cui tanto si discute, fortemente motivato e formato potrebbe essere impiegato in modo esclusivo e con grande profitto negli uffici finanziari chiamati a realizzare questa grande impresa. Insieme etica ed economica: eliminare il grande male nazionale dell’evasione fiscale.

Male dal quale deriva anche l’enorme debito pubblico, posto a carico di tutti gli italiani, che va abbattuto per poter realizzare una incisiva ripresa economica. Debito che condiziona pesantemente anche l’esistenza di un efficiente sistema di welfare, perché la mancanza di adeguate risorse non consente l’attivazione di una diffusa rete di servizi sociali, come previsti dalla Legge 328 del 2000, in grado di assicurare vero benessere e progresso civile a tutti i cittadini italiani e alle loro famiglie.

Giri

I veri problemi del nostro Paese

Evasione fiscale

L’Italia vive una delle fasi più problematiche della sua storia recente. Sono molti i politici, gli economisti, i sociologi ed i giornalisti che ne discutono. Spesso facendo, come si usa dire, di tutta l’erba un fascio. La verità è che il nostro paese non si potrà riprendere se prima non affronta, con estrema decisione e concretezza, e non risolve, i suoi antichi problemi: la grande criminalità organizzata, la corruzione e l’enorme evasione fiscale. E, a monte di essi, la diffusa assenza di una cultura della legalità.

Facendosi carico, contestualmente, di una profonda riforma dell’assetto e dell’organizzazione politica e amministrativa a tutti i livelli. Riducendo il numero dei componenti la Camera dei deputati e del senato. Rivedendo il numero delle regioni, delle provincie e dei comuni e dei componenti i relativi consigli e organi di governo. Eliminando l’attuale, pesante presenza dei partiti nelle istituzioni pubbliche, a partire dalla Rai. Contrastando con forza e con l’ausilio di norme intransigenti ogni forma di corruzione. Restituendo ai cittadini il pieno diritto di scegliere ed eleggere i propri rappresentanti a tutti i livelli amministrativi e politici.

Un simile processo di profonda revisione e aggiornamento non è certo facile ma è possibile. Come è possibile diffondere la cultura della legalità, a partire dalle scuole e da tutte le sedi associative, coinvolgendole in programmi di conoscenza e di pieno rispetto delle leggi che regolano la convivenza civile. Isolando sempre più quelli che non lo fanno. Tanti paesi l’hanno fatto prima di noi con risultati eccellenti.

Per quanto riguarda la criminalità organizzata il problema deve essere affrontato innanzi tutto a Roma e da Roma. Tagliando radicalmente qualsiasi contatto tra politica nazionale e cosche locali. Come non è stato fatto con la mafia siciliana dove, per citare qualche nome, Lima e Ciancimino prima e poi Cuffaro, Dell’Utri e tanti altri hanno avuto la copertura dei loro diretti referenti nazionali. Lo stesso avviene con la ndràngheta calabrese e con la camorra campana. Bisogna individuare e perseguire qualsiasi rapporto tra criminalità organizzata e operatori politici ed economici con un sistematico controllo delle realtà produttive a livello locale.

Deve essere più diffusa, rapida e pesante la confisca dei beni delle criminalità organizzate e il loro immediato e vigilato impiego per finalità contrapposte, sostenendo adeguatamente i destinatari del loro utilizzo. Tutto questo deve essere realizzato con la puntuale messa a punto di un organico piano di interventi a tutti i livelli, sistematicamente aggiornato.

Altrettanto importante per il futuro dell’Italia e delle nostre comunità è la lotta alla evasione fiscale. Fenomeno di così grandi dimensioni tanto che la sua anche parziale e graduale soluzione potrebbe consentire una vera rinascita economica e sociale del nostro paese.

Ho vissuto personalmente e con successo una esperienza di lotta alla evasione fiscale in tempi assai remoti: e la voglio raccontare. Nel febbraio1942, appena compiuti 18 anni, venni militarizzato e impiegato in “sostituzione di richiamati alle armi” all’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Catania. Mi venne affidata la Categoria C2 che comprendeva tutte le libere professioni (medici, avvocati, ecc.) con l’incarico di procedere all’accertamento delle loro dichiarazioni di reddito. Con mia grande sorpresa vidi che tali dichiarazioni erano palesemente false. Tutti dichiaravano redditi inferiori a quello di un modesto impiegato. E, purtroppo, erano state considerate valide dall’unico “accertatore” dell’Ufficio. Mi feci carico, autorizzato dal Capo-Reparto, di controllare con visite presso tutti gli studi professionali la fondatezza delle dichiarazioni, raccogliendo ogni utile documentazione per poi chiedere, con grande successo, la revisione delle dichiarazioni rese e, sulla base dei nuovi accertamenti, il pagamento di quanto dovuto, arretrati compresi. I giornali del tempo pubblicarono con grandi titoli “Finalmente si pagano le tasse” ed era assolutamente vero.

Dopo l’arrivo delle forze alleate, liberata Catania dal fascismo, con una manifestazione si disse organizzata dall’ EVIS -Esercito Volontari per l’Indipendenza della Sicilia- l’Ufficio delle Imposte di Catania venne saccheggiato, ma solo i mobili e le carte del mio ufficio vennero buttati giù dal balcone e bruciati nella piazza sottostante. Ma di tutte quelle pratiche avevo fatto copia, custodita in altra ala del palazzo che poi vennero bene utilizzate.

Da questa mia remota esperienza traggo il convincimento che solo mobilitando, formando e motivando i dipendenti del Ministero delle Finanze e di altre strutture pubbliche, presenti nelle varie sedi periferiche delle amministrazioni dello Stato ma chiamati a far parte di un unico progetto mirato a redigere una aggiornata e verificata anagrafe tributaria, che registri con grande scrupolo le posizioni ed i redditi di ogni cittadino e della sua famiglia, sarà possibile lottare e vincere l’evasione fiscale. Non basta la lodevole attività della Guardia di Finanza e l’adozione di procedure di generico controllo. E’ indispensabile una costante, sistematica attività di accertamento individuale, a livello locale, provinciale, regionale e nazionale, con l’utilizzazione di tutti gli strumenti utili, il tutto regolato da appositi provvedimenti legislativi.

Una parte del personale delle Amministrazioni regionali, provinciali e comunali, di cui tanto si discute, potrebbe essere impiegato in modo esclusivo e con grande profitto negli uffici finanziari chiamati a realizzare questa grande impresa. Insieme etica ed economica: eliminare il grande male nazionale dell’evasione fiscale.

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Bene comune e servizio sociale

Il bene comune,  il bene di tutti, è un obiettivo da perseguire, un traguardo da raggiungere assolutamente.  Nell’interesse di tutti. Sulla base di un nuovo progetto politico che tenga conto del processo di globalizzazione in atto. Processo che, essendo dominato dalla libera concorrenza in un libero mercato, non sarà mai giusto se non sarà disciplinato da un sistema giuridico e normativo antitrust in grado di assicurare la necessaria perequazione nella distribuzione delle ricchezze prodotte.

Un progetto politico teso a costruire, diffondere ed assicurare la pace, fondata non solo sul superamento delle guerre ma sulla edificazione di società animate dalla giustizia e dalla solidarietà. Non solo a livello nazionale ma universale.

Un simile progetto deve interrogare la coscienza di tutti e di ciascuno perché impone di pensare al bene non solo come legittima ricerca degli interessi personali e familiari ma come impegno a promuovere il bene in tutta la comunità, come valore fondato sulla solidarietà e sulla equa ripartizione di tutte le risorse disponibili. Anche perché una visione personale e privata del bene, che ignora quello pubblico e comunitario, non può assicurare l’armonico sviluppo della società umana.

Ne consegue l’impegno di animare la vita democratica ai livelli nazionali e internazionali con una forte spinta alla partecipazione, superando la frattura esistente tra società civile, Stati e Organismi sopranazionali e, per quanto ci riguarda, in particolare nell’Unione Europea.

Nel nostro Paese dobbiamo ancora costruire una democrazia matura, promuovendo una nuova cultura politica, fondata sul rigoroso rispetto delle leggi e su una larga condivisione del bene comune. Che sia di essenza evangelica perché fondata sull’amore e sulla solidarietà, animata dai credenti ma non solo e che sia capace di attivare valori e principi non solo confessionali. Perché, come sosteneva Pietro Scoppola, non c’è una democrazia cattolica ma ci sono i cattolici che si fanno portatori di una spiritualità che lascia il segno.

Lungo questo percorso si debbono valorizzare tutte le risorse disponibili nella società civile. Tutte. Comprese quelle rappresentate dalla presenza e dal lavoro degli organismi del Terzo Settore che, purtroppo, sono generalmente e largamente trascurate. Perché il bene delle persone, delle famiglie e dei mondi vitali della società, sia mobilitato per la costruzione del bene di tutta la collettività, scacciando l’indifferenza e promuovendo un forte impegno civile in tutti.

In questo contesto il Servizio Sociale professionale potrebbe assumere un ruolo importante, impegnandosi di più per una formazione continua degli assistenti sociali, attivando un costante e puntuale lavoro di ricerca e di riflessione sulle tematiche sociali relative ai servizi sociali fondamentali e di base, realizzando sistematici momenti di formazione e di arricchimento culturale per quanti vi partecipano, ivi compresi gli operatori sociali che svolgono attività proprie di animazione.

Non basta, ad esempio, invocare salvaguardia e tutela per la famiglia. La famiglia rappresenta una risorsa essenziale quale nucleo fondamentale di una società civilmente e umanamente progredita. Ma la famiglia per un suo armonico sviluppo ha bisogno di essere aiutata specialmente nei momenti di difficoltà. E’ stata pensata una nuova figura di operatore sociale, l’assistente familiare, che potrebbe affiancare l’opera degli assistenti sociali nelle iniziative d’ aiuto per le numerose famiglie che oggi vivono in estrema difficoltà. Non basta parlare dei bisogni della famiglia per poi magari ricorrere alle “badanti” ed alle “assistenti domiciliari” che possono dare risposte parziali e del tutto inadeguate a quei bisogni.

Riteniamo dunque che spetti al Servizio Sociale, adeguatamente sostenuto, il compito di concorrere alla mobilitazione di tutte le forze sociali al fine di assicurare:

– la presenza di canali di ascolto e di comunicazione con tutti i cittadini accordando quindi una attenzione particolare ai problemi dell’informazione su tutte le risorse sociali disponibili, con l’attivazione di una diffusa e ben definita rete del servizio di segretariato sociale;

– il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza e la soddisfazione dei bisogni di tutti i cittadini e delle famiglie assicurando l’applicazione delle disposizioni vigenti nel quadro di quanto previsto dalla legge 328 del 2000, con il coinvolgimento dell’utenza, degli operatori pubblici e di quelli privati, degli amministratori, sviluppando al meglio il ruolo del servizio sociale professionale;

– la progressiva percezione dei bisogni individuali avviando conoscenze e solidarietà sempre più ampie, che coinvolgano le famiglie, le comunità locali, quelle regionali sino a quelle nazionali e internazionali.

Nel nostro Paese la pubblica amministrazione, l’università, il governo nazionale e segnatamente quelli regionali e locali non accordano la dovuta attenzione ed il necessario sostegno alla presenza ed alla funzione propria del Servizio Sociale e degli assistenti sociali, neanche nelle sedi e nelle misure previste dalle leggi vigenti. Da queste carenze spesso deriva, con l’insufficienza quantitativa, la sostanziale inadeguatezza dei servizi con danni rilevanti per i cittadini, per le istituzioni, ma soprattutto per gli stessi servizi e per quanti vi operano. Gli organici del personale, spesso sottostimati rispetto alle esigenze dei servizi, sono quasi sempre incompleti rendendo inadeguate le prestazioni di aiuto, lasciando insoddisfatta l’utenza e insufficienti le prestazioni.

La politica invoca spesso l’assoluta priorità da accordare alla ricerca e alla formazione per realizzare un significativo sviluppo economico. Siamo d’accordo, ma riteniamo che lo sviluppo economico debba essere accompagnato dalla crescita equilibrata dell’intera società e che altrettanta priorità, dunque, debba essere accordata alla ricerca e alla formazione per assicurare la presenza di adeguati servizi sociali e assistenziali, condizione essenziale per la civile crescita delle persone, delle famiglie e di tutta la comunità.

Confidiamo che tale esigenza sia avvertita e fatta propria da tutti e che il futuro riservi alle politiche sociali italiane un pieno, programmato sviluppo.

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